All’architetto Giancarlo De Carlo il
Comune di Rimini affidò nel 1970 la redazione del Piano Particolareggiato (PP)
del centro storico e di quello che il Piano Regolatore Generale del 1965 (PRG)
qualificava come futuro “centro direzionale” della città, individuato nell’area
che si estende, a monte della ferrovia, dall’Arco d’Augusto alla Colonnella,
allora parzialmente inedificata.
Il “Piano De Carlo” venne presentato nella
primavera del 1972 e incontrò subito una forte resistenza tra i proprietari di
immobili, ampiamente riflessa sulle pagine del "Resto del Carlino",
per il carattere fortemente innovativo e quasi utopistico delle scelte
urbanistiche, ispirate alle esperienze statunitensi di “pianificazione
partecipata” maturate nel clima ideologico degli anni intorno al ’68.
De Carlo mirava a un superamento delle
scelte del PRG, fondendo centro storico e centro direzionale in un’unica
entità, denominata “nuovo centro”, scelta che sul versante trasportistico si
concretizzava nella proposta di un sistema di trasporto rivoluzionario, una
monorotaia sospesa, in grado di connettere tutte le funzioni del "nuovo
centro".
Questo nuovo sistema di trasporto avrebbe
dovuto, in particolare, assicurare un collegamento rapido e regolare tra i
nuclei integrati, o “condensatori”, dove era prevista la concentrazione dei
servizi (in ogni nucleo sarebbe stata presente una stazione) e tra questi e gli
istituti dell’istruzione secondaria, offrendo per di più ai cittadini «una
condizione di trasporto agevole e distesa», lontana dalle condizioni di
scomodità e di isolamento visivo dei normali mezzi pubblici, che avrebbe reso
possibile l’osservazione della città «da punti di vista inusitati e sorprendenti».
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La tecnologia prescelta era di origine
svizzera, e precisamente il sistema “Minirail”, che era stato concepito a Thun,
nel cantone di Berna, dall’impresa di Willy Habegger: un geniale inventore che,
dopo aver costruito un gran numero di impianti a fune dando un contributo
decisivo allo sviluppo turistico delle località alpine, si era dedicato ai
mezzi di trasporto innovativi da utilizzare nell’ambito di parchi ed
esposizioni, producendo una versione leggera delle classiche monorotaie
sopraelevate.
La via di corsa delle monorotaie allora
conosciute, di cui un esempio molto noto è costituito dall’impianto sistema
Alweg costruito a Torino nell’ambito dell’esposizione “Italia ‘61” (centenario
dell'Unità d'Italia), era costituita da una trave di cemento; il tutto era
caratterizzato da una sensibile pesantezza, senza contare le notevoli
difficoltà nella realizzazione dei deviatoi.
Nel sistema Habegger, la trave portante
era d’acciaio a sezione rettangolare (mm 55 x 50) ed era sorretta da piloni
pure in acciaio, posti a circa 20 metri l’uno dall’altro. Su di essa correvano
convogli formati da vagoncini di sagoma ridotta.
L’impianto realizzato a Montréal (Canada)
per l’Esposizione Universale del 1967 aveva fatto registrare un notevole
successo, riuscendo a trasportare 5500 passeggeri l’ora e proponendo il sistema
"Minirail" come tecnologia in grado di risolvere i problemi di
trasporto nelle aree urbane. Altri impianti del genere sarebbero stati
realizzati in seguito, tra cui quello di Sacramento (California), che la casa
costruttrice indicava come prototipo cui si sarebbe ispirato il
"Minirail" riminese.
Nel sistema "Minirail" ciascun
vagone era munito di due porte per lato ed aveva la capacità di 12 passeggeri,
accomodati in quattro divani da tre posti: la sagoma concedeva una larghezza
massima di 1800 mm all’altezza della seduta. Gli elementi del treno non erano
tra loro comunicanti, a causa dell’interposizione tra di essi di un carrello
monoassiale con due motori elettrici di trazione.
Questi ultimi funzionavano in corrente
continua, pur in presenza di un sistema alimentazione a corrente alternata
trifase «di tensione e frequenza normale» costituito da conduttori fissati
lateralmente alla trave portante. A bordo del treno, un gruppo rotante Ward
Leonard (i moderni sistemi di regolazione elettronica erano ancora di là da
venire) provvedeva a convertire la corrente da trifase a continua.
Il rodiggio del treno era piuttosto
complesso: gli elementi interposti tra i vagoni poggiavano su un asse virtuale
costituito da due ruote motrici munite di pneumatici e azionate ciascuna da un
motore elettrico. Quattro “ruote di guida” mantenevano l’asse sulla sede e due
“ruote di sicurezza” ne impedivano il distacco dalla via di corsa, agendo sotto
la trave. Il primo asse dell’elemento di testa e l’ultimo di quello di coda
erano folli.
La frenatura era costituita da due
sistemi: mentre i motori di trazione
avrebbero funzionato come freni a recupero, su ciascuna ruota agiva un
freno a disco, che entrava in azione in caso di caduta di corrente o guasti al
sistema elettrico e fungeva da freno di stazionamento.
Il "Minirail" era proposto in
versione da 9 vagoni per una lunghezza complessiva del convoglio di 39,50 m e portata di 102 passeggeri, tutti
seduti. La casa costruttrice offriva anche la possibilità di un sistema di
guida automatico, in alternativa alla conduzione manuale dei convogli, senza
però addentrarsi in particolari tecnici.
Quanto alla via di corsa, costituita come
si è detto da una trave metallica di limitata sezione, nei documenti prodotti
da Habegger non erano descritte le caratteristiche dei deviatoi, necessari sia
in deposito che per le biforcazioni in piena linea; tuttavia da un filmato
mostrato durante la presentazione del sistema si ricavava che la deviazione avveniva
mediante una rotazione della trave. I deviatoi non erano presenti ai capilinea,
dove era previsto un cappio di ritorno (i treni sarebbero stati
monodirezionali).
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La casa costruttrice del
"Minirail" predispose anche un progetto di massima dell’impianto per
la città di Rimini. Il sistema era composto da un tronco a doppia trave, dello
sviluppo in asse di 4650 m e da un tronco a trave unica, cioè a un solo senso
di marcia, lungo 2545 m. La tratta a doppia trave aveva la funzione di
connessione tra quelli che il progettista qualificava come i «punti
fondamentali della città»: Marina Centro, stazione ferroviaria, centro storico
(in tangenza nella zona di piazza Castelfidardo), “asse di sviluppo”, nuovo
ospedale, per poi scavalcare nuovamente la ferrovia e terminare sul lungomare,
all’incirca a metà strada tra lo sbocco della via Lagomaggio e il piazzale
Gondar. Lungo questo percorso si trovavano nove stazioni (compresi i due
capilinea) alla distanza media di 560 metri.
Il percorso a senso unico, lungo il quale
si trovavano cinque stazioni, aggirava invece il centro storico, permettendone
l’accessibilità dall’esterno.
Nel progetto di massima
quest’ultimo itinerario è concepito come deviazione di percorso in un solo
senso di marcia, con uno sviluppo di 3670 m (vedi foto 4), ma un più razionale
utilizzo sarebbe stato come linea circolare, con due stazioni comuni alla linea
principale.
Secondo i dati di progetto, i convogli
avrebbero posseduto un’accelerazione di 0,8 m/sec2, muovendosi a una
velocità di 7 m/sec. Valutati - forse un po’ troppo ottimisticamente - i tempi
di fermata in 20 secondi, se ne desumeva una velocità commerciale di 17,64 km/h
e tempi di percorrenza di 15+15 minuti (andata e ritorno) per la linea
principale, 13 (intero giro) per la circolare.
Se le prestazioni non erano eccelse dal
punto di vista della velocità d’esercizio, il sistema trovava punti di forza
nella possibilità di offrire un’alta frequenza dei transiti – fino a 80 secondi
di intervallo tra un treno e l’altro, corrispondenti ad una portata oraria di
4500 passeggeri per senso di marcia – oltre che ovviamente nell’assenza di
interferenze con la normale viabilità.
Per completare il quadro, si aggiunga che
sulla rete la pendenza massima prevista era del 4% e il raggio di curvatura
minimo di 25 metri. La potenza installata su ciascun convoglio (65 kW orari) e
la capacità di inscriversi in curve strette non rendevano problematici questi
parametri.
Il preventivo pervenuto dall’azienda
svizzera per la fornitura di 25 treni ed il montaggio dell’infrastruttura
ammontava a poco meno di tre miliardi di lire del 1971 (corrispondenti a circa
21 milioni di euro al change-over del
2002), cifra di non facile reperimento per un’amministrazione esclusa dalle
leggi vigenti all’epoca in materia di trasporti metropolitani.
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Fin qui il progetto di massima, che non
sarebbe mai entrato in fase esecutiva, lasciando senza risposta domande del
tipo come sarebbero state realizzate le stazioni, dove sarebbe potuta passare
la trave senza provocare impatto visivo, ecc.
Acclusa al Piano De Carlo vi è
la relazione del professor
Guglielmo Zambrini del Politecnico di Milano, uno dei maggiori esperti italiani
in materia di trasporto metropolitano, che fu incaricato di vagliare la
validità del progetto. Ebbene, nello scritto del Zambrini è contenuto più di un
cenno all'insufficienza della monorotaia leggera a risolvere i problemi della
mobilità nella città di Rimini: «il Minirail (…) è un sistema lento; la già
vista velocità commerciale dell’ordine dei 17 km/h (con fermate ogni 500 metri)
non consente di spingerlo oltre i 6–7 chilometri, un viaggio dunque dell’ordine
di 20–25 minuti».
Si coglie in questa considerazione
dell’acuto studioso un’anticipazione dell’inadeguatezza dei sistemi tipo people mover - dei quali il
"Minirail" può essere considerato un antesignano - a costituire una
vera e propria alternativa alle metropolitane: il loro uso resterà confinato ad
ambiti limitati quali servizi navetta sulle brevi distanze o dentro parchi e
aeroporti.
Per il trasporto costiero, che comunque
resta l’unico ambito in cui nella realtà riminese si registrano rilevanti punte
di traffico, secondo Zambrini era auspicabile una soluzione “fuori strada”, che
però difficilmente sarebbe potuta venire da un uso "metropolitano"
della ferrovia, giudicato impraticabile finché non si costruisca una linea a
monte per i treni a lunga percorrenza e anche perché le distanze tra le
stazioni non potrebbero essere inferiori a 1500 metri, mentre il livello di
urbanizzazione e le distanze in gioco richiedono una densità di fermate non
troppo diversa da quella delle esistenti linee di autobus e filobus.
Per inciso, nel 1972 il servizio urbano di
Rimini (compresa la filovia Rimini–Riccione) si sviluppava su una rete di dieci
linee, sulle quali erano impiegati 36 autobus e 14 filobus.
Il “Piano De Carlo”, nei confronti del
quale furono presentate quasi duemila osservazioni, sarebbe stato accantonato
nel giro di un paio d’anni dalla stessa Amministrazione comunale. Nonostante il
forte ruolo propulsivo in favore del trasporto pubblico giocato dalla crisi
energetica del 1973-’74, della monorotaia non si sarebbe più parlato e i
vagoncini sospesi sulla città di Rimini sarebbero rimasti nella memoria
collettiva come una stravagante proposta contenuta in un utopistico piano
dell'"archistar" di turno.
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Era passato più di un decennio da questi
avvenimenti, quando nel 1985 all'interno del parco "Italia in
Miniatura" a Viserba di Rimini fu inaugurata una monorotaia che con un
anello di 730 metri circonda tutto il parco all'altezza media di 6 metri. Per
quanto si tratti di un impianto assai semplice, dichiaratamente progettato e
realizzato dalle maestranze del parco agli ordini del geniale fondatore Ivo
Rambaldi, le affinità di "Arcobaleno" (così fu chiamata la
monorotaia) con il sistema Habegger sono moltissime, dalle dimensioni della
trave in acciaio, ai vagoncini in numero di dodici, per una massa complessiva
di 9 tonnellate e una lunghezza di 30 metri, che trasportano sei persone
ciascuno, tutti muniti di motori da 3 kW alimentati in tensione alternata
trifase. Dopo trent'anni di servizio regolare che ha consentito ai visitatori
una visione spettacolare del parco contenente circa trecento miniature di
monumenti e paesaggi, nel 2015 l'impianto è stato fermato per problemi tecnici (leggi:
blocco avvenuto con passeggeri a bordo che hanno vissuto un brutto quarto
d'ora) e non è dato di sapere se il servizio riprenderà.
Quanto alla Habegger di Thun, nel 1982
l’impresa fu acquistata da un’altra società svizzera, la von Roll, che nel 1988
ne ha utilizzato la tecnologia per la realizzazione di una monorotaia nella
zona portuale di Sidney: un anello a semplice trave di 3,6 km con otto stazioni
ospitate all’interno di edifici, la stessa soluzione che De Carlo aveva pensato
per i suoi “condensatori”. Pur essendo diventato un simbolo caratteristico
della skyline della città australiana, la monorotaia di Sidney non ha
avuto lunga vita: nel 2013, infatti, questo impianto è stato abbandonato a
favore di altri sistemi più performanti.